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«I figli stiano con la madre», una scelta naturale?

da Gen 11, 2017Diritti della persona, Famiglia

Una dei problemi più difficili – e più importanti – derivanti da una crisi di coppia è certamente quello di regolare il regime di vita dei figli minori, evitando, per quanto umanamente possibile, che la fine della relazione d’amore tra i genitori debba essere “pagata” dai figli.

Nel passato, come noto, il regime giuridico prevalente era quello dell’affidamento esclusivo, per cui il giudice era chiamato a decidere se affidare i bambini alla madre o al padre, mentre i casi di affido “in comune” risultavano assai limitati.

La situazione è cambiata con la legge 54 del 2006, la quale ha stabilito che, generalmente, i figli vadano affidati a entrambi i genitori, mentre l’affidamento a uno solo di loro dev’essere accompagnato da specifiche motivazioni.

Se però, l’affidamento congiunto fa sorgere la necessità che le decisioni più importanti per la vita del minore siano assunte di comune accordo tra i genitori, nella maggior parte dei casi resta aperto il problema di scegliere il genitore cosiddetto collocatario, cioè la figura genitoriale che dovrà coabitare con il bambino o il ragazzo per la maggior parte del tempo. Infatti, se è vero che non mancano i casi di collocamento congiunto, è anche vero che i continui cambiamenti di abitazione che  ne derivano sono spesso considerati poco consigliabili per una crescita equilibrata dei minori.

Ecco, dunque, che il problema della scelta del genitore più idoneo alla cura dei figli, cacciato dalla porta, finisce (purtroppo) col rientrare dalla finestra …

È allora lecito chiedersi, come orientarsi nell’assumere una decisione così difficile e gravida di conseguenze? Il principio fondamentale che deve guidare il giudice è quello del superiore interesse del minore, principio tanto importante che la Dichiarazione internazionale dei Diritti del Fanciullo lo definisce «determinante», mentre l’art. 337 ter del nostro codice civile ritiene che tale principio debba avere rilevanza esclusiva nelle decisioni giudiziarie in materia di affidamento.

Ma come si garantisce, in concreto, la tutela del superiore interesse del minore? Su questo gli interpreti si dividono. Tradizionalmente, la maggioranza dei magistrati adotta (non sempre esplicitamente!) il principio di preferenza per la madre (o maternal preference), secondo il quale, in linea generale, l’interesse dei minori sarebbe meglio garantito affidandoli al genitore di sesso femminile, ferma restando la possibilità di discostarsi da tale regola in situazioni specifiche contrassegnate dalla manifesta inidoneità della madre a garantire le cure parentali.

Tale orientamento trova un parziale riconoscimento normativo nel sesto principio della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, laddove esso stabilisce che «salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre». Inoltre, è sembrato a taluni che il principio di preferenza della madre sia stato di recente condiviso apertamente dalla Cassazione nella sentenza 18087 del 14 settembre 2016, la quale, in verità, non fa altro che prendere atto che tale principio, adottato dalla Corte d’Appello de L’Aquila, non fosse stato contestato nei giusti tempi processuali dal difensore del padre. In sostanza, quindi, se c’è una Corte che ha dato sostegno al principio in discussione in questione, questa è la Corte d’Appello abruzzese e non la Cassazione.

Nondimeno, non tutti i giudici condividono l’orientamento “pro mamma”. Il Tribunale di Milano, con un recente provvedimento (decreto del 19 ottobre 2016) ha ritenuto ormai superato il criterio della maternal preference, in favore di una valutazione caso per caso del genitore più idoneo; secondo un esame da compiersi al riparo da ogni pregiudizio di genere. Il Tribunale lombardo, ritiene infatti che vadano lette in tal senso le più recenti modifiche legislative della normativa familiare.

Nel solco tracciato dal giudice milanese è intervenuto anche il Tribunale di Catania, con una significativa ordinanza del 9 dicembre scorso, che si è schierata apertamente contro il principio della collocazione “naturale” presso la madre, ritenendolo frutto di un mero pregiudizio, e sostenendo con forza il principio di uguale idoneità in astratto di entrambi i genitori a divenire collocatari dei figli, con conseguente necessità per il giudice di “preferire” il genitore più adeguato sulla base di un’analisi condotta caso per caso e non influenzata da giudizi astratti sui due generi.

Sembra, dunque, che l’orientamento “pro mamma” stia iniziando a essere messo in discussione e, aggiungiamo, che l’adozione di un criterio più neutro ci pare condivisibile.

Infatti, non solo la Costituzione italiana stabilisce un principio di uguaglianza tra le persone (art. 3) e, in particolare, tra i genitori (art. 30) che difficilmente appare compatibile con una preferenza astratta per la madre; ma soprattutto l’evoluzione dei costumi sociali ha ormai superato l’idea che alla donna competa “per natura” la gestione della casa e l’educazione dei figli, mentre all’uomo, altrettanto naturalmente, competerebbero i ruoli extradomestici. La visione sociale prevalente, infatti, sembra essere nel senso che i ruoli familiari dipendano sempre più da scelte liberamente assunte – e negoziate – tra i componenti della comunità domestica e sempre meno da regole sociali determinate una volta per tutte. D’altra parte non è lecito pensare, con il sociologo tedesco Ulrich Beck, che la libertà di scelta del proprio ruolo, tipica della modernità, superi i confini dei rapporti professionali per estendersi a quelli domestici?

 

Avv. Giuseppe Auletta